Ascolano nato nel 1510 da famiglia gentilizia. Non è possibile avere notizie più precise sulla famiglia e sugli anni giovanili trascorsi ad Ascoli Satriano da Donato de Laurentiis, perché, nel 1656, un incendio distrusse i documenti dell’Archivio ecclesiastico, attiguo alla sacrestia della cattedrale ascolana. Il giovane Donato de Laurentiis si trovò a vivere quello che fu uno dei momenti più duri e drammatici per l’intera Capitanata e, in particolare, per Ascoli Satriano. Mosse i suoi passi alla volta di Napoli, dove seguì i corsi di diritto in quella università, che, recentemente riaperta nella sede di San Domenico Maggiore, costituiva un bastione di quel tradizionalismo giuridico di cui era paladino lo stile spagnolesco. Donato de Laurentiis conseguì la laurea di dottore in utroque iure. Lo ritroviamo, poi, ad Ascoli, pienamente inserito nella vita ecclesiastica in veste di canonico cantore del Capitolo della cattedrale, cioè di una delle cinque dignità capitolari, insieme con l’arcidiacono, il decano, l’arciprete e il tesoriere. Gli anni di governo del vescovo di Ascoli Giovanni Francesco Gaeta sono quelli in cui Donato de Laurentiis si formò prima in paese e vi esercitò poi la sua funzione di dignitario capitolare. Questi anni furono segnati da continue vertenze circa i benefici e i luoghi pii, che si ritenevano esenti dalla giurisdizione vescovile. Esemplare, a questo proposito, è la causa tra il vescovo Gaeta e fra Masello Barone di Candida, priore del monastero verginiano di San Donato di Ascoli, circa l’esenzione di quel monastero, a favore della quale, il 25 ottobre 1548, il vescovo di Capri, Leonardo de Magistris (1540-1551) emise la sentenza pubblicata dal notaio apostolico di Napoli Giovanni Matteo Venezia.
Un peritus in utroque iure come Donato de Laurentiis venne a trovarsi, quindi, di fronte alla concretezza delle numerose controversie legate ai benefici di giuspatronato regio, alle questioni dell’exequatur, alle nomine dei vescovi nelle diocesi di presentazione regia, alle resistenze e all’offensiva papale per il controllo dell’episcopato meridionale. Era un esponente di una famiglia gentilizia come quella dei de Laurentiis ben integrata nel sistema sociale ed ecclesiastico della Capitanata del primo Cinquecento, come attestano le carriere dei suoi fratelli: Marco giurisperito e Antonio milite. E fu così che, il 21 giugno 1557, il papa caprigliese Paolo IV (1555-1559) nominò Donato de Laurentiis vescovo di Minori, una sede di nomina pontificia, che, suffraganea di Amalfi, non contava un gran numero di abitanti: a Minori, nel 1561, i fuochi tassati erano 126, corrispondenti a circa 500 abitanti. La diocesi di Minori aveva visto susseguirsi, nello spazio di dieci anni, ben tre vescovi, per cui fu cura e premura di Donato de Laurentiis rendersi subito conto delle condizioni materiali e spirituali, nelle quali versava la diocesi, e provvedere agli interventi necessari, sicché, pochi mesi dopo il suo insediamento, prontamente organizzò e realizzò, nel 1558, la visita pastorale.
Ma, intanto, ben altri eventi stavano attraversando la vita di Donato de Laurentiis: da una parte, la riforma luterana, che aveva sconvolto la Chiesa, e, dall’altra, la riforma tridentina, che si stava faticosamente preparando e che lo avrebbe visto tra i Padri conciliari. Infatti, tra innumerevoli complicazioni politiche ed ecclesiastiche, avevano già avuto luogo sedici sessioni del Concilio di Trento, che aveva vissuto una prima fase, dal 13 dicembre 1545 all’11 marzo 1547, a Trento; quindi, il trasferimento a Bologna dal 21 aprile 1547 al 18 settembre 1549; poi, una seconda fase, dal 1 maggio 1551 al 21 aprile 1552, di nuovo a Trento. Dei 289 cardinali, patriarchi, arcivescovi e vescovi, che, dal 18 gennaio 1562 al 4 dicembre 1563, presero parte alle sessioni conciliari, molti erano del tutto ignoranti in campo teologico e giuridico, sicché ad essere protagonisti dei dibattiti furono davvero in pochi. Tra questi si segnalò particolarmente l’intervento di Donato de Laurentiis nella congregazione generale del 10 febbraio 1562. Si trattava di una questione di non poco conto, che riportava i padri conciliari alla congregazione generale del 26 gennaio 1546, allorché il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte, che presiedeva il Concilio per incarico del papa Paolo III, aveva proposto che i tre cardinali legati (Giovanni Domenico de Cupis, Marino Grimani e Gian Pietro Carafa, il futuro papa Paolo IV) dividessero i padri conciliari in tre distinti gruppi di discussione o classes, presieduta ciascuna da uno dei cardinali legati. Questa modifica procedurale consentiva ai cardinali legati, presiedendo ciascuno un piccolo numero di padri conciliari, di poter meglio controllare il Concilio ed articolarne la composizione secondo i propri intendimenti.
La proposta fu prontamente bloccata proprio dall’intervento di Donato de Laurentiis, che, incitando i padri conciliari ad adottare il sistema delle deputationes, opportunamente assistite da giurisperiti e teologi, ricordò che le istruzioni papali date, nel 1545, al cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte lo ammonivano a prendere come modello il Cæremoniale Sanctæ Ro¬manæ Ecclesiæ di Agostino Patrizi, che, sotto papa Giulio II, aveva regolato le procedure del Concilio Lateranense V (1512-1517), e che, prevedendo l’adozione del sistema delle deputationes, era stato
seguito fino a quel momento.
Era, quindi, abbastanza probabile che un vescovo così preparato e combattivo attirasse su di sé, durante i lavori conciliari, sia avversioni che apprezzamenti. Sta di fatto che, un anno prima della conclusione del Concilio di Trento, Donato de Laurentiis veniva promosso, il 29 gennaio 1563, alla ben più importante diocesi di Ariano, che, a differenza di quella di Minori, era una sede di nomina regia e che, quindi, comportava una lunga procedura, da quando, il 29 giugno 1529, tra Carlo V e Clemente VII era stato firmato, a Barcellona, il trattato, col quale si conferiva alla Corona spagnola il diritto di nomina su otto arcidiocesi e diciassette diocesi del regno di Napoli, tra cui, appunto, quella di Ariano. Fu, quindi, attraverso questa lunga procedura che a Donato de Laurentiis arrivò la nomina a vescovo di Ariano.
Se si considera che l’episcopato arianese di Ottaviano Preconio, il predecessore di de Laurentiis, era durato appena nove mesi, dal 13 giugno 1561 al 18 marzo 1562, gli ultimi due dei quali lo avevano visto impegnato a Trento, e l’episcopato di Diomede Carafa (predecessore di Preconio),si era prolungato per quasi un cinquantennio fino al 12 agosto 1560, con l’ultimo quinquennio trascorso totalmente a Roma, si comprende quale enorme mole di lavoro e quale contesto sociale ed ecclesiastico attendessero Donato de Laurentiis, allorché, alla chiusura del Concilio di Trento, fece il suo ingresso nella diocesi di Ariano.
Dagli Atti delle diverse visite pastorali, che Donato de Laurentiis compì tra il 1564 e il 1580, emerge con chiarezza il quadro dell’ambiente sociale arianese: da un lato, una massa di contadini, massari, bracciali, vaticali e operai, la maggior parte dei quali, poverissima, indebitata e oppressa dalle tante gabelle sul grano, sull’olio, sul vino, sugli animali e sul catasto, viveva alla giornata; dall’altro, una minoranza di nobili, ecclesiastici con prebende, borghesi benestanti, dottori in legge, medici, notai, giudici a contratto, speziali, merciai e artigiani. Ma tra i numerosissimi preti dell’intera diocesi ce n’erano anche tanti del basso clero, che vivevano in condizioni alquanto disagiate. Peraltro, molte famiglie altolocate esercitavano il diritto di giuspatronato su numerose chiese, riservandosi il diritto di nominarvi i beneficiari.
Il vescovo de Laurentiis si trovava, quindi, di fronte ad un contesto sociale assai complesso, nel quale si inserivano i molteplici problemi che caratterizzavano un ambiente ecclesiastico arroccato nella difesa dello status quo e fortemente geloso delle proprie prerogative e dei propri privilegi. Deciso, comunque, a dare immediata applicazione ai decreti conciliari, Donato de Laurentiis, il 1 agosto 1564, li pubblicò e, in ottemperanza al terzo canone del decreto tridentino di riforma, dell’11 novembre 1563 (ottava sessione, XXIV del Concilio), che obbligava i vescovi alla visita pastorale annuale, la intraprese, nel 1564, al fine, come recitava il canone tridentino, di “bonos mores tueri, pravos corrigere”. Cominciò, quindi, con l’ordinare, con decreto del 18 agosto 1564, che nella cattedrale vi fosse un ecclesiastico incaricato di suonare l’organo, per cui unì due benefici sotto il titolo di San Pietro nell’omonima collegiata e di Santo Stefano nell’omonima chiesa parrocchiale, affinché servissero di prebenda al chierico organista, che doveva aver cura dell’organo e suonarlo in tutte le festività e quante volte occorresse. Poi, in applicazione delll’ottavo canone del decreto tridentino di riforma sui benefici, del 16 luglio 1562 (quinta sessione, XXI del Concilio), che obbligava i vescovi a sorvegliare e correggere i monasteri, le abbazie, i priorati e le prepositure, intervenne sulla vita poco edificante delle Benedettine di Ariano, il cui monastero dichiarò di clausura, ripristinandovi regole e modi di vivere, per cui otto monache fecero professione religiosa nelle sue mani. Quindi, l’8 maggio 1565, soppresse la parrocchia del Santissimo Salvatore, unendola a quella di Sant’Eustachio, poi unita alla cattedrale, ed assegnandone le rendite all’omonimo monastero delle Benedettine.
Quelli tra il 1564 e il 1572 furono anni di un’intensa e profonda azione riformatrice da parte del vescovo de Laurentiis. Nelle visite pastorali emergevano, infatti, situazioni, la cui gravità richiedeva l’immediato intervento del vescovo:
- La decadenza morale dei chiostri: monasteri e conventi carenti di qualsiasi disciplina, monaci e frati vaganti, dalla condotta scandalosa, privi di vocazione, che avevano del monaco o del frate solo il nome;
- Le frequenti controversie tra clero secolare e clero regolare;
- La pratica diffusa dell’usura, dell’adulterio e del concubinato, reati che erano sottoposti al giudizio del tribunale ecclesiastico;
- Lo scarso interesse dei parrocchiani a riparare o a ripulire le loro chiese, le loro canoniche e i loro cimiteri, donde le frequenti ammonizioni, le citazioni, le imposizioni e soprattutto le ammende da parte del vescovo;
- La presenza di preti ignoranti e grossolani, dissoluti, frequentatori di bettole, accaniti giocatori di bocce e partecipi di danze, concubinari (anche con figli), ubriaconi, che saccheggiavano i beni ecclesiastici e ne causavano la rovina degli edifici o che esigevano senza pietà le decime persino da parrocchiani in miseria, mentre, da una parte, il decreto tridentino di riforma, del 17 settembre 1562 (sesta sessione, XXII del Concilio), aveva bandito dalla vita del clero il lusso, i banchetti, le danze, i giochi e ogni specie di intrighi o affari mondani, e, dall’altra, il decreto tridentino di riforma, del 16 luglio 1562 (quinta sessione, XXI del Concilio), aveva fatto obbligo ai vescovi di procedere contro i parroci “qui turpiter et scandalose vivunt”;
- La presenza di parroci che preparavano incantesimi e ignoravano addittura le verità fondamentali della fede e della dottrina cristiana;
- La presenza di chierici soltanto tonsurati, col conseguente conflitto fra il tribunale civile e il tribunale ecclesiastico, a tutto vantaggio dei peggiori elementi, i quali, abusando dei privilegi del clero, non rispettavano neppure i più elementari precetti ecclesiastici ed esercitavano tutti i mestieri, non esclusi quelli più disonesti;
- L’abuso delle questue e delle elemosine, in palese contrasto col nono canone del decreto tridentino di riforma, del 16 luglio 1562 (quinta sessione, XXI del Concilio), che aveva annullato tutti i privilegi accordati in passato, in materia di questue e di elemosine, ai monasteri, agli ospedali, alle chiese, a causa “degli abusi e delle irregolarità commesse dai questuanti e sembrando la loro depravazione accrescersi ogni giorno, con grande scandalo dei fedeli”;
- L’abuso delle messe a pagamento, in contrasto col decreto tridentino di riforma, del 17 settembre 1562, che aveva condannato “cuiu¬svis generis mercedum conditiones, pacta et quidquid pro missis novis celebrandis datur”(cap. I).
Ma il più duro e rischioso campo d’azione, per un vescovo del regno di Napoli che, come Donato de Laurentiis, voleva scrupolosamente attuare le riforme decretate dal Concilio di Trento, era, senz’altro, quello dei benefici e del Capitolo dei canonici. Già il decreto tridentino di riforma, del 3 marzo 1547 (settima sessione), mentre, da una parte, aveva obbligato i vescovi, sotto pena di nullità delle loro nomine, a provvedere le parrocchie e gli altri benefici di persone “degne e competenti”, poiché un gran numero di benefici minori erano soggetti al diritto di patronato46, per cui i titolari venivano nominati da diversi collatori (signori laici, capitoli, monasteri, ecc.), dall’altra, aveva proibito il cumulo dei benefici, ingiungendo ai vescovi di fare una severa revisione dei titoli di tutti i detentori di parecchi benefici con cura d’anime.
Poi, il decreto tridentino di riforma, del 17 settembre 1562 (sesta sessione, XXII del Concilio), contro la caccia alle prebende capitolari da parte di una folla di semi-laici, spesso nobili, i quali percepivano le rendite senza adempiere ai doveri inerenti al loro status e facendosi sostituire, con un salario di fame, da vicari più o meno bisognosi, oltre ad aver prescritto ai vescovi di dividere le rendite capitolari in modo che un terzo di queste fossero riservate alla distribuzione quotidiana, della quale avrebbero beneficiato unicamente i presenti, mentre i recidivi avrebbero potuto subire castighi ancora più gravi, aveva decretato, sotto pena di nullità della nomina, che nessuno potesse ricevere il canonicato senza esigere che tutte le funzione fossero svolte personalmente dai titolari.
Aveva, inoltre, fatto obbligo ai vescovi di vigilare sull’esecuzione di tutti i lasciti pii, col diritto di visitare gli ospedali, i collegi, le confraternite, le scuole, le associazioni e i monti di pietà, i cui amministratori erano obbligati a presentare annualmente al vescovo il rendiconto della loro gestione.
Di fronte alle annose contrapposizioni tra vescovi e Capitoli delle cattedrali, il Concilio di Trento aveva risolto ogni questione a favore del potere del vescovo, al quale, ormai, erano stati sottoposti anche l’arcidiacono e l’arciprete, per cui i canonici indegni non erano più immuni dall’autorità vescovile. Ma anche per la collazione di una parrocchia i candidati dovevano essere esaminati da una commissione nominata dal vescovo, il quale doveva scegliere il più idoneo, non in base a pressioni esterne, ma unicamente “quem ceteris magis idoneum iudicaverit”(decreto di riforma dell’11 novembre 1563, ottava sessione, XXIV del Concilio).
È evidente che tutto ciò apriva diversi fronti di guerra tra un vescovo riformatore di nomina regia e il consolidato sistema dei vari benefici ecclesiastici all’interno di una realtà, come quella della provincia ecclesiastica beneventana, che non spiccava molto per ardimento riformatore e che, in quegli anni (1560-1574), priva di un arcivescovo, aveva come metropolita un amministratore apostolico, il cardinale Giacomo Savelli, che, benché impegnato come cardinale vicario a Roma, tenne, comunque, l’11 aprile 1567, a Benevento, il concilio pro¬vinciale47, al quale partecipò Donato de Laurentiis insieme con altri nove vescovi suffraganei. Uno dei temi centrali di questo concilio provinciale fu l’urgenza di dare un’adeguata preparazione ai futuri sacerdoti quanto a vita e dottrina, secondo le prescrizioni del canone XIII del decreto tridentino di riforma, del 15 luglio 1563 (settima sessione, XXIII del Concilio), che aveva previsto a tal fine l’istituzione di un seminario in ogni diocesi (can. XVIII), come aveva prescritto, poi, anche la Bolla Benedictus Deus di Pio IV, del 26 gennaio 1564, nel confermare i decreti tridentini. E in questa direzione si erano già mossi molti vescovi, tra cui proprio Donato de Laurentiis, che, già nel 1565, tra i primi in Italia, lo aveva fondato, assegnandogli una parte del palazzo vescovile, come precisava il testo della Sacra Congregazione dei Seminari: “Conditum est ab ep.o Donato de Laurentiis anno 1565, qui pio Instituto tribuit partem palatii episcopalis”.
E fu proprio l’istituzione del seminario a costituire la maggiore occasione di forti e ripetuti scontri col sistema beneficiale e di intense e prolungate amarezze per il vescovo de Laurentiis, che, avendo constatato lo stato di degrado morale e culturale in cui versava gran parte del suo clero, investì ogni energia nella formazione dei sacerdoti, applicando alla lettera quanto aveva prescritto il canone XVIII del decreto tridentino di riforma, del 15 luglio 1563 (settima sessione, XXIII del Concilio), secondo il quale le risorse finanziarie occorrenti alla istituzione e alla manutenzione del seminario dovevano essere ricavate tassando sia le rendite della mensa vescovile51 e della mensa del Capi-tolo, sia le rendite di tutte le dignità e abbazie e di tutti i benefici della diocesi, i cui possessori, qualora si fossero rifiutati di versare la tassa prevista, sarebbero potuti essere costretti dal vescovo “con censure ecclesiastiche e con altri mezzi legali ed anche, se sembrerà opportuno, con l’aiuto del braccio secolare”.
Di fronte agli interventi del vescovo, cominciarono a farsi sentire le fortissime resistenze dei vari possessori di benefici, finché il Capitolo dei canonici della cattedrale arianese pensò di aver trovato il modo di sottrarsi al versamento della tassa sulle proprie rendite a beneficio del neonato seminario e, nel 1572, denunciò il vescovo al Tribunale della Nunziatura Apostolica di Napoli, accusandolo di ridurre con quella tassa le rendite dei benefici e, di conseguenza, anche quanto ne poteva ricavare la Camera Apostolica. Si toccava così una corda molto sensibile della Nunziatura napoletana, giacché l’attuazione dei decreti tridentini di riforma era ancora in uno stadio di problematica gestazione, mentre l’apparato finanziario della Chiesa restava quanto mai esigente e intoccabile. Roma non era affatto disposta a ridurre il drenaggio di denaro diocesano e a favorire i vescovi nella loro lotta contro i patronati feudali e i privilegi dei Capitoli delle cattedrali, che erano espressione delle oligarchie cittadine. Tutto ciò contribuiva a bloccare importanti riforme tridentine, come quella dell’istituzione dei seminari, alcuni dei quali, perciò, ebbero vita breve.
Non sfuggiva, ovviamente, a de Laurentiis che il nunzio apostolico di Napoli con la sua funzione di collettore pontificio delle decime papali sui benefici tassati dalla Camera Apostolica esercitava una forte pressione fiscale, che incideva pesantemente sul reddito dei beni ecclesiastici. Ma, comunque, l’imposizione delle tasse a sostegno del seminario causò la rivolta dei vari titolari di benefici e di esenzioni, i quali fecero ricorso al nunzio e collettore apostolico Antonio Sauli, che era l’esecutore delle disposizioni papali e il giudice delle controversie in materia, e ne chiesero e ne ottennero le franchigie, cioè le esenzioni54, come risulta dalla lettera indirizzata, da Napoli, il 22 ottobre 1574, dal nunzio Antonio Sauli al cardinale Tolomeo Gallio, segretario di Stato di Gregorio XIII.
Da Napoli gli Atti furono inviati al Tribunale dell’Uditore della Camera Apostolica, per cui Donato de Laurentiis fu obbligato a presentarsi a Roma, dove venne istruito il processo d’inquisizione contro di lui. Ma dei gravi problemi che affliggevano la diocesi e della sua azione riformatrice Donato de Laurentiis aveva, già da tempo, informato dettagliatamente Roma. Infatti, dopo aver partecipato al concilio provinciale beneventano dell’11 aprile 1567, attenendosi, ancora una volta, alle prescrizioni tridentine, che obbligavano i vescovi alla visita ad limina ogni cinque anni e alle debite relazioni da inviare a Roma, il 28 ottobre 1567, “Donatus episcopus per procuratorem visitat limina”56.
Ciò nonostante, Fabio Menichini, Commissario della Camera Apostolica e Luogotenente dell’Uditore57, emise, in prima istanza, la sentenza di condanna per eccesso di giurisdizione da parte del vescovo, sotto il titolo “Arianen. Excessuum pro Fisco, et Communitate, et Hominibus Civitatis Ariani contra R. P. D. Donatum de Laurentiis Ariani Episcopum”58. Un esperto di diritto come de Laurentiis, però, non si diede per vinto e presentò ricorso, querelando i suoi accusatori. Il Tribunale dell’Uditore della Camera Apostolica era composto dal Camerlengo, dal Tesoriere generale, da dodici chierici di Camera, dal Commissario generale, dall’Avvocato fiscale, da tre sostituti commissari e da nove notai segretari e cancellieri della Camera. Le cause, in primo grado, secondo le particolari materie, venivano dibattute o davanti al Camerlengo, o davanti al Tesoriere, o davanti ai chierici camerali, o davanti alla Congregazione camerale, o davanti alla Congregazione per la revisione dei conti; invece, in secondo grado, le cause passavano dal Tribunale di prima istanza al Tribunale di piena Camera.
A rappresentare il Capitolo davanti a quest’ultimo organismo curiale fu nominato, nel 1573, il pubblico notaio arianese Giovanni Domenico Landimario, che, in difesa degli Arianesi, trattenuti a Roma ad istanza e querela del vescovo60, dovette soggiornare a Roma per ben nove mesi, trattando spesso col papa Gregorio XIII ed ottenendo l’esito positivo della causa a favore dei possessori di benefici, “come osservasi ne’ suoi Notamenti in fine del Protocollo dell’anno 1574”.
Questo notaio aveva un movente specifico per cercare una vendetta contro un vescovo laureato in utroque iure come de Laurentiis, che aveva applicato nei suoi confronti il decreto tridentino di riforma del 17 settembre 1562 (sesta sessione, XXII del Concilio), sottoponendolo ad un esame, in base al quale, come prescriveva il cap. X di quel decreto conciliare, qualora un pubblico notaio fosse stato trovato incompetente, il vescovo poteva sospenderlo dall’esercizio delle sue funzioni in materia ecclesiastica.
E così, il 28 giugno 1574, nel Tribunale di piena Camera, il Commissario e Governatore di Roma, monsignor Ludovico Taverna62, confer¬mò la sentenza di prima istanza63, per cui Donato de Laurentiis, vescovo di nomina regia, restava sospeso dalla giurisdizione ecclesiastica sulla diocesi di Ariano, dove, intanto, era già stato nominato come vicario apostolico Pietro Antonio Vicedomini, che, il 17 novembre 1574, fu nominato vescovo di Sant’Angelo dei Lombardi64, per cui come vicari apostolici di Ariano gli subentrarono, prima, Pietro Francesco de Nigro e, poi, Barnaba Nicolini.
Comunque, de Laurentiis non si diede affatto per vinto, ma si appellò al papa Gregorio XIII, che, nel 1575, avocò a sé la causa, ordinando ai due giudici di terza istanza, Piro Taro e Berardino Taro, di comunicargli la sentenza65, dalla quale il vescovo riuscì vittorioso, come sottolineava, nel 1657, il cardinale Pietro Sforza Pallavicino66. Infatti, nel 1578, lo ritroviamo ad Ariano, dove si attivò per ottenere da Gregorio XIII, col Breve papale del 13 febbraio 1579, per l’altare del protettore della città sant’Ottone, il riconoscimento di altare privilegiato “in perpetuum et quotidie” in suffragio delle anime dei defunti. Così, annullata la sospensione della giurisdizione e ritornato ad Ariano con i pieni poteri, il vescovo de Laurentiis poté consumare la sua vendetta sui canonici e su tutti i possessori di benefici, obbligandoli a versare la tassa sulle loro rendite a favore del seminario.
I canonici di Ariano non si diedero, tuttavia, per vinti e, cercando un qualsiasi pretesto per sbarazzarsi del vescovo riformatore, presentarono ricorso alla Sacra Congregazione del Concilio68, accusando il vescovo di non voler far riparare il campanile e il coro della cattedrale69 e, quindi, di non aver cura della chiesa cattedrale, in contrasto con quanto prescritto ai vescovi dal Concilio di Trento. Che l’accusa fosse ingiusta e infondata si evince dal costante impegno profuso da Donato de Laurentiis a favore della cattedrale arianese, a cominciare dall’artistica cattedra, un’opera d’arte catalana, le cui lastre raccontano sia del vescovo de Laurentiis che la commissionò, nel 1563, al ritorno dal Concilio di Trento, sia dell’artista che la realizzò70: danneggiata dal terremoto del 1732, restaurata e ricollocata nella cattedrale di Ariano Irpino, il 13 dicembre 2007, per arricchire la cattedrale, come ricordava nel suo discorso il vescovo Giovanni D’Alise, di una prestigiosa e preziosa opera d’arte, che, in passato, era collocata nella chiesa di San Michele Arcangelo, dove i vescovi per secoli avevano fatto l’ingresso in diocesi e da dove, dopo la lettura della Bolla pontificia di nomina, in processione si andava in cattedrale per il solenne pontificale di ingresso.
Sempre premuroso del decoro della cattedrale arianese, de Laurentiis ne commissionò, inoltre, l’organo monumentale, che era stato distrutto dai terremoti. Dunque, le accuse dei canonici erano del tutto pretestuose; eppure, trovarono ascolto presso la Sacra Congregazione del Concilio, che incaricò l’arcivescovo metropolita di Benevento, Massimiliano Palombara, di risolvere la questione in veste di Commissario Apostolico. L’arcivescovo Palombara, eletto il 26 maggio 1574, aveva preso possesso dell’arcidiocesi di Benevento solo il 19 febbraio 1576. Costui, recatosi, il 2 luglio 1577, ad Ariano, “visa bona voluntate Reverendissimi Domini Episcopi Arianensis per ejus litteras manu propria scriptas et subscriptas sub datum Asculi die penultima iunii 1577”, decretò di far sequestrare cinquecento ducati delle rendite della mensa vescovile e incaricò del restauro del campanile e del coro il vicario apostolico Barnaba Nicolini di Sabina72, il Regio Governatore di Ariano Camillo Borrello e i loro successori, affidando la somma di denaro a due depositari, che erano don Ascanio Corso e il notaio Valerio Teutonico, “salva et declaratione, et arbitrio Sacrae Congregationis Ill.morum D.norum Cardinalium quoad pensionem dicti R.mi D.ni Episcopi super asserta contributione Reverendissimorum Dominorum Canonicorum, et Capituli dictae Ecclesiae, et juribus R.mi Episcopi super hoc, et aliis semper salvis ad arbitrium dictae Sac. Congregationis, et contra R. D. Petrum Franciscum de Nigro Vicarium quoque Apostolicum Ariani, qui dictum Chrorum demoliri fecit”.
E fu così che, profondamente esacerbato dalle continue e persistenti calunnie e maldicenze, ostacolato da prelati carrieristi e da accaniti difensori di antichi privilegi e benefici, impossibilitato a continuare nella sua opera di riforma del clero e di sostegno ai cittadini più bisognosi a causa dell’assottigliamento delle già scarse rendite della mensa vescovile, pur restando vescovo di Ariano, Donato de Laurentiis si ritirò ad Ascoli Satriano, dove sostanzialmente e preferibilmente trascorse i suoi ultimi cinque anni di vita e dove morì nel 1584.
Molti anni prima, si era fatto preparare il sepolcro nella cattedrale di Ariano77, con la semplice indicazione:
DONATUS DE LAURENTIIS ASCULANUS
EPISCOPUS ARIANUS.
Ma, poi, in seguito alle tristi vicende vissute ad Ariano, optò per la sepoltura nella cattedrale di Ascoli Satriano, nella cappella gentilizia della sua famiglia (attuale cappella del Santissimo o di S. Giuseppe), insieme con i fratelli Antonio e Marco. Sulla lastra di marmo del loro sarcofago furono scolpiti questi sei distici:
FRATRIBUS EX TRIBUS PRAEVENTUS MORTE QUIEVIT
PARTHENOPE, JUNIOR COELICA REGNA TENENS.
VIVENTES PRAESUL PRIMUS, MILESQUE SECUNDUS
FUNERIS ANTE DIEM PRAEPARAVERE LOCUM.
JAM VIVUNT, QUAMVIS VIDEANTUR IMAGINE LAPSI.
DISCITE MORTALES VIVERE POST TUMULUM.
SED NEQUIVIT TANDEM PRAESUL HIC EVADERE FLUCTUS
MUNDI HUJUS A DOMINO DISCIPULIS MONITUS
NAMQUE UT ATHANASIUS VEXATUS AB ARIANIS
ULTOR IN HOS FALSOS, VICTOR AB URBE VENIT
ET NE FALSARII SINE POENA TUNC REMANERENT
ROSIT OPES ROMA, FALSARIOSQUE DEUS.
Da questa epigrafe apprendiamo che, dopo la morte prematura, avvenuta a Napoli, del fratello Marco, gli altri due fratelli, il più anziano Donato e il più giovane Antonio, fecero preparare il tumulo, sul quale fu proprio il vescovo de Laurentiis a far incidere quei distici, sottolineando di non aver potuto evitare i marosi di questo mondo, ma, vessato come Atanasio dagli Ariani, ritornò vincitore da Roma in veste di vendicatore dei suoi calunniatori, le cui rendite beneficiali furono rose dalla sentenza del papa, mentre le loro persone venivano rose da Dio.
Questa l’autovalutazione espressa da Donato de Laurentiis. Quanto, invece, al giudizio storico sul suo episcopato, è andato sempre più crescendo, nel corso dei secoli, un processo di costante rivalutazione del suo operato. Infatti, se nel 1657 Pietro Sforza Pallavicino lo diceva “lungamente perseguitato dagli arianesi e ritornato vittorioso alla patria”, nel 2007 Giovanni Orsogna, parlando dell’opera del “benemerito vescovo arianese Mons. Donato de Laurentiis” e ricalcando le parole dell’attuale vescovo di Ariano Irpino, Giovanni D’Alise, così lo presentava:
“L’episcopato di De Laurentiis, anche se ha procurato sofferenze al presule, è stato di grande rilievo: la committenza della cattedra (1563), la cura pastorale attenta alle necessità dei poveri e bisognosi, l’opera contrastata della costruzione del seminario, le visite ad limina, molto meticolose, lo stile è stato seguito anche dai vicari apostolici inviati dalla S. Sede: Pietro Antonio Vicedomini (1572), Pietro Francesco Nigro e Barnaba Nicolini. Mons. De Laurentiis è stata una delle più fulgide figure di pastore attento premuroso per il decoro della cattedrale, egli commissionò il monumentale organo della cattedrale, andato perduto con i terremoti, ma ha beneficato tutti, portando la croce della sofferenza silenziosa per i detrattori. La sua preoccupazione è stata sempre quella di servire Cristo e la Chiesa, preoccupandosi della formazione del clero e dell’istruzione dei poveri in tutta la diocesi”.
Purtroppo, un vescovo del Mezzogiorno come de Laurentiis venne a trovarsi e ad essere stretto tra blocchi di potere, diversi e lontani, che convergevano nel contrastarne e limitarne le potenzialità operative: pressato, da una parte, dalle varie forme in cui si erano espressi storicamente il fiscalismo e l’accentramento romano, che avevano circoscritto o svuotato la giurisdizione del vescovo; dall’altra, dalle consuetudini e dalle esenzioni dei vari e diversi corpi privilegiati, che frenavano la sua azione o non accettavano alcun genere di coordinamento che rischiasse, anche lontanamente, di coinvolgere e compro-mettere la loro autonomia. In tal senso, l’affermazione dell’autonomia da parte dei Capitoli delle cattedrali, che mostravano chiaramente i segni della “deprivazione dei motivi religiosi e degli ideali religiosi che li avevano originati”81, non era nient’altro che la chiusura nella gestione dell’immunità ecclesiastica e la difesa ad oltranza dei beni ricevuti, insieme con le collusioni con i gruppi sociali detentori del potere nelle universitates e baronie del regno di Napoli.
Se non ci si fonda solo sulle fonti normative (decreti, Atti sinodali, ecc.), ma si analizzano gli Atti delle visite pastorali82, le relazioni delle visite ad limina, i fondi dei tribunali d’appello e delle nunziature83, la corrispondenza delle Congregazioni romane, le relazioni dei visitatori apostolici84, ecc., si trova la prova che l’impeto riformatore di vescovi come de Laurentiis incise scarsamente e stentatamente sul clero meridionale e sui loro fedeli, preoccupati soprattutto della possibilità di usufruire del loro ruolo di mediatori del sacro.
I veri sconfitti furono, in definitiva, proprio quei vescovi zelanti come de Laurentiis, che, regolarmente emarginati, vennero smentiti e spesso redarguiti dai tribunali d’appello romani e dai nunzi, gli uni e gli altri sensibili non tanto alle ragioni pastorali quanto a quelle politiche della Curia romana, preoccupata soprattutto della tutela delle immunità giurisdizionali del clero e pronta a piegarsi di fronte ai potenti in sede locale. Fu, insomma, il concilio tridentino ad essere messo quasi subito in soffitta, per salvaguardare anzitutto il centralismo romano85, sicché, nel giro di pochi anni, aspetti qualificanti del processo di riforma conciliare si persero nel nulla.
(da un file su Mons. de Laurentiis di Francesco Capriglione del 2011).
Fu sospeso e costretto a ritirarsi ad Ascoli nel 1572.
Nel 1578 scrisse al Papa una supplica, affinché venisse revocata la sospensione, che restò senza esito. Morì ad Ascoli Satriano. Il Comune di Ascoli ha dedicato cittadina intitolata alla famiglia de Laurentis, ubicata sulla collina Castello in pieno centro storico, che collega via Menenio Agrippa vico Storto.
Il suo nome è citato dall'Abate benedettino napoletano Giovanni Battista Pacichelli nel suo libro del 1703 "Il Regno di Napoli in prospettiva", nella parte terza, come "un de' Padri del Concilio"
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