La Cattedrale di Ascoli Satriano

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SAN POTITO – nella tradizione popolare di Ascoli Satriano

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Da "SAN POTITO – nella tradizione popolare di Ascoli Satriano" di Potito Mele – 1994.

I – POTITO? E’ NOME O COGNOME? –
# 1 .UN COGNOME ROMANO.

Nell’onomastica romana Potito (Potitus) è un cognome. E’ il terzo dei tria nomina del civis romanus,(nell’onomastica latina il cittadino veniva designato con il praenomen (prenome), che era il nome personale, con il nomen (nome), che indicava la "gente" a cui appartenava, con il cognomen (cognome) del gruppo familiare o casato legato alla "gente" attraverso un capostipite o antenato da essa discendente), del quale designa non la persona individualmente intesa, ma la famiglia e il casato a cui essa appartiene.

Nell’evoluzione della lingua latina, divenuta gradualmente lingua italiana, non è raro il caso di un nomen o di un cognomen usato come praenomen per indicare una persona: si pensi a cesare, Tullio, Valerio, Agostino, ecc. Il nomen Valerius denota un’antichissima gens patrizia romana alla qiale apparteneva il casato dei Potito il cui cognomen è registrato nei fasti consolari.

Tito Livio, nei primi libri della sua monumentale "Ab urbe condita" ricorda i diversi magistrati di quella gente e di quel casato (Caius, Lucius, Publius Valerius Potitus) che furono consoli o tribuni militari con potestà consolare, al vertice cioè della Res Publica Romana fra il 450 e il 331 a.C. per oltre un secolo, distinguendosi, specialmente durante il decemvirato, nell’acceso dibattito sulle riforme istituzionali come politici di larga apertura democratica verso la plebe e come valorosi capi militari degno del trionfo per le loro imprese nelle guerre contro Veio e contro i Volsci.

A tempi ancora più antichi, qualli della fondazione stessa di Roma, risale il nome poco diverso dei Potitii: Romolo in persona sacrifica a Ercole secondo il doppio rito albano-greco così come era stato istituito da Evandro, il quale lo aveva affidato alle gentes dei Potitii e dei Pinarii, all’estinzione dei quali il censore Appio Claudio trasformò il culto da privato in statale.

Non è chiaro se quella dei Potitii fosse propriamente una gens; è molto più probabile che il loro fosse un collegium sacerdotale: il nome, infatti, è da collegarsi alle libagioni che facevano in onero della divinità bevendo del vino. Non è possibile, d’altra parte, stabilire una perfetta identificazione gentilizia fra Potitus e Potitius né individuare il nesso che unisce i due nomi sul piano civile e religioso.

2. ORIGINE E SIGNIFICATO DEL NOME.

I due nomi sono, almeno in apparenza, diversi anche sul piano etimologico e semantico: Potitus sembra risalire direttamente al verbo potior, del quale ricalca la forma del participio perfetto potitus; Potitius, invece, evoca oiù il significato di poto (bere). Il termine Potitii, in effetti, è il corrispondente latino di una parola greca che indica "i posseduti" dal dio. In ogni caso gli esiti dei due nomi riconducono ad un’unica radice pot(is) che significa potenza, forza, dominio, capacità, potere, sovranità. Nel sacrificio liturgico, forza e potenza si acquistano assumendo la bevanda con la quale il dio entra nel corpo del sacrificante impossessandosene. Il concetto e l’idea della forza nel mito classico, com’è noto, trovavano un’espressione fisica, un’incarnazione, una personalizzazione nell’eroe divinizzato Ercole, che era nell’antichità la divinità protettrice anche di Ascoli Satriano.

La forza e la potenza sono d’altra parte le doti specifiche che la tradizione scritta, attraverso la passio sancti Potiti martyris (genere narrativo – agiografico seguito da autori spesso anonimi per raccontare la vita, i miracoli e la morte dei martiri) nelle varie stesure, e la tradizione popolare, attraverso le forme e le modalità varie della devozione, attribuiscono e riconoscono al Patrono di Ascoli. Allo stesso modo l’iconografia di tutta l’area culturale, estesa all’intero territorio centro – meridionale italiano, esalta tali qualità rappresentando, spesso, nelle vesti di guerriero il giovane santo, definito dalla passio "athleta di Dio".

3. EVOLUZIONE E DIFFUSIONE DEL NOME.

Passato dal latino all’italiano, il nome Potito è usato per designare località, casati, persone. Sebbene non molto diffuso (non viene nemmeno registrato in certi repertori di onomastica), lo troviamo come toponimo in una vasta area geo–linguistica in comuni, frazioni e contrade, strade, chiese, parrocchie, cappelle intitolati al Santo. Da quanto emerge da recenti studi sul campo e dalla carta delineata da Giuseppe D’Arcangelo e Ciro Pio ("Geografia del culto di San Potito, Ascoli S.1993), che danno conferma di vecchie notizie arricchendole di nuove notevoli scoperte, il toponimo San Potito risulta indissolubilmente e sistematicamente legato alla diffusione del culto del Martire per opera dei monaci Benedettini.

Meno chiara è la vicenda del nome e cognome Potito.

Emidio De Felice nel suo "Dizionario dei nomi italiani"(Mondadori, Milano 1986) rileva, attraverso gli elenchi telefonici, circa duemila Potito e definisce il nome "proprio del sud continentale, e qui accentrato in Puglia e in Campania, riflette il culto di San Potito, originario della dacia, martire a 13 anni sotto Antonino, patrono di Ascoli Satriano, Tricarico, San Potito Sannitico e San Potito Ultra, il cui nome in latino ecclesiastico tramandato come Potitus potrebbe essere, se non è di origine orientale, collegato con l’anticogentilizio romano Potitus, forse da potis: padrone, signore".

Non vi è notizia di uno studio in connessione diacronico – sincronica sul nome Potito.

Come cognome (esso appare negli elenchi telefonici e su cartelloni e insegne pubblicitarie di alcune località pugliesi e molisane come Trinitapoli e Termoli, dove indicano aziende commerciali) è presente, con una sorprendente e inaspettata frequenza, in provincia di Foggia, nella regione Puglia e in quella confinante del Molise. L’attestazione cognominale, al di là di motivazioni e connessioni cultuali, si riallaccia all’antico cognomen latino Potitus. Accanto alla forma corretta Potito, abbiamo quella corrotta Petito, diffusa nell’area napoletano – campana con il comune affievolamento della vocale protonica, e quella molto curiosa di Patito, frutto di errata trascrizione di amanuensi.

E’ presumibile una corruzione di Potito in Lotito e Lo Tito per un incrocio con Tito (praenomen latino Titus), che dà ragione della sostituzione della consonante iniziale bilabiale p con la liquida l in quanto la sillaba iniziale bilabiale po è stata sentita e intesa come articolazione determinativo lo e pertanto ha finito per essere staccata dal corpo della parola. E’ rilevante l’assonanza con i cognomi Losito e Polito, nelle cui forme è tuttavia azzardata l’ipotesi di una corruzione di Potito, evidente invece in quella apocopata di Potì rilevata nell’area barese. Una vera storpiatura dialettale sarebbe la forma Pacico registrata ad Andretta, ove è stata individuata una "contrada San Potito", se fosse provata la sua derivazione da Potito.

Potito, propriamente e storicamente, è anche il cognome del Patrono di Ascoli, qualunque sia il suo rapporto con il Vet.Publilio Potito, il cui nome è iscritto su un sarcofago romano, risalente secondo lo Hansen al III secolo d.C. L’iscrizione pone grossi problemi per le possibili connessioni di quel nome con quelli storicamente attestati di Valerio e Pubblicola, dei quali Vettio e Veturio (secondo altra interpretazione) e Publilio potrebbero essere corruzioni, gentilizi riportati nei fasti consolari.

4.USO DEL NOME NELL’ONOMASTICA ASCOLANA.

Per il comune passaggio del cognomen latino a nome di persona nell’italiano e per un culto antico, ininterrotto e saldamente radicato al Martire, il nome Potito è attestato e usato ad Ascoli esclusivamente come appellativo personale ( da Clara Rizzi "Tesi in onomastica di Ascoli Satriano dal 1809 al 1865", Facoltà di Magistero, Univ,di Bari, a.a. 1970/71). Non si ha notizia di forme cognominali pure né derivate o corrotte mentre quella nominale evidenzia una diffusione e una frequenza di gran lunga superiori a quelle di qualsiasi altro nome personale maschile. E’ un Potito, ad esempio, nel 1799, il primo sindaco di Ascoli.

E’ antica tradizione delle famiglie ascolane attribuire il nome Potito ad almeno un suo componente, maschio o femmina, soprattutto se si tratta del primogenito che eredita, di solito il nome del nonno paterno, al quale, si dice, "mette la suppònne" (trad."mettere il puntello, il sostegno" per significare "continuare la discenfdenza, perpetuare la stirpe"). Tale consuetudine popolare si è mantenuta ed è stata rispettata rigorosamente fino agli anni cinquanta. I radicali mutamenti e i rivolgimenti avvenuti nel mondo contemporaneo, che hanno messo in crisi costumi, valori e tanti aspetti della società e della famiglia patriarcale, hanno dato uno scossone anche a questa usanza ascolana, sicché il nome Potito, sentito come brutto dalle coppie moderne, viene dato con sempre minore frequenza ai bambini che nascono nelle famiglie ascolane. Dai dati raccolti da G.D’Arcangelo e C.Pio durante lo loro missioni di studio nei luoghi potitiani e fra le comunità che hanno qualche relazione storico-cultuale con San Potito tale tendenza appare ancora più rilevante che ad Ascoli (Giuseppe D’Arcangelo – Ciro Pio "Geografia del culto di San Potito", Ascoli S. 1993). Perfino in quelle località dove il Santo è patrono della città, come a Tricarico, San Potito Sannitico e San Ultra, la diffusionee la frequenza del nome si sono ridotte al minimo o si sono addirittura annullate. Il fenomeno si è verificato parallelemente a una caduta del culto del Martire, che si è affievolito o estinto e di esso non rimane che qualche traccia storica o materiale con la conservazione di alcune reliquie, statue e dipinti talora rimossi dagli altari e finiti nei depositi delle chiese. Un curioso uso del nome Potito, in un’accezione di scherno e di derisione per additare lo scemo del villaggio, è stato rilevato in Spagna da Mons.Leonardo Cautillo (parroco della Cattedrale di Ascoli satriano "Natività della B.V.M.") e riferito per Tricarico da Mons. Angelo Mazzarone (vicario generale della diocesi di Tricarico).

Facendo altre osservazioni storiche e linguistiche sul nome Potito, è da porre in grande rilievo la straordinaria assonanza con quello di SanFotino, confessore greco, Vescovo di Benevento e discepolo di san Pietro, il quale evangelizzò, secondo la tradizione, gli abitanti di Ascoli e Ordona. Nei due nomi le vocali si succedono identiche nel medesimo ordine. Mutano invece le consonanti iniziale e finale: la spirante sonora affricata f iniziale di Fotino prende il posto della occlusiva bilabiale sorda p di Potito, di cui potrebbe essere una forma aspirata, mentre nessun rapporto si coglie fra la nasale alveodentale n del primo con la momentanea dentale sorda t del secondo. L’osservazione deve limitarsi a cogliere una magica suggestione fonica e non andare oltre per avventurarsi in un’azzardata ipotesi di identificazione tra i due santi, vissuti storicamente in tempi diversi e lontani fra loro, che sconvolgerebbe tutta la tradizione e la cronologia del cristianesimo ad Ascoli.

L’uso popolare nel dialetto di Ascoli dell’antico nome latino di Potito (attestato anche nel greco nella forma Potìtos) (Cfr.Rocci, "Vocabolario Greco-Italiano", Soc.Ed.Dante Alifhieri, Città di Castello, 1959) affievolisce in schwa, secondo costanti dialettali meridionali, le vocali pretonica e postonica producendo l’esito Petite. A volte opera l’aferesi della prima sillaba Po riducendo il nome Tite, da non confondersi assolutamente con il praenomen latino Titus (Tito). Dalle due forme derivano i diffusi vezzeggiativi Petetucce (Potituccio) e Titucce (Tituccio). Quest’ultimo, al di là dell’incrocio venutosi a determinare nel dialetto ascolano con il termine tatùcce di altri dialetti meridionali, non va identificato con Tutùcce (piccolo padre, da Tatà), titolo che si dava al fratello maggiore. Al femminile sono registrate le forme Marìia Petìte e quelle derivate Petetèlle, Tetèlle.Tèlle (Maria Potita, Potitella, Tetella, Tella).

II. MARTIRIO E CULTO DI SAN POTITO NELLA TRADIZIONE STORICA

1.DISCONTINUITA’ E LACUNE DI UNA TRADIZIONE ANTICA.

Nel significato del nome Potito è stato colto con chiarezza il concetto di potenza, di forza, di dominio, di possesso. A tale concetto si è ispirata nel trempo la tradizione storica e a questa si è conformata la tradizione popolare ascolana relativa al martirio e al culto di San Potito, al quale i fedeli di Ascoli riconoscono la straordinaria capacità di preservarli da calamità naturali come terremoti e siccità e da mali fisici. Tale tradizione con la devozione al Santo non è mai cessata ad Ascoli e risale, probabilmente, al tempo stesso del martirio.

Concordiamo in ciò con quanto asserisce a tal proposito nel suo saggio ("San Potito martire di Ascoli Satriano – Storia e Culto ", Daunia Sud Ed., Foggia 1992) il sacerdote Antonio Mottola , anche se dalle fonti e dai documenti scritti la tradizione sembra seguire nei secoli una parabola a volte con andamento ascendente, ricco di dati e informazioni, altre con un andamento discendente in cui ogni cosa sembra avvolta nel buio. Da sempre ha nociuto alla gloria di Ascoli la presunta origine orientale o sarda del Santo tramandata dalle fonti più antiche. Alla città pugliese è stato riconosciuto soltanto il privilegio di essere la sede del martirio. E non è poco, se per la Chiesa e per il cristiano è più importante il luogo della morte che quello della nascita del Santo (la questione dell’origine del martire, a lungo dibattuta dagli studiosi, costituisce l’oggetto principale della ricerca storico-critica del Capriglione nella sua opera "La patria d’origine del Martire Potito"- Ascoli S.,1978 – ed è ampliamente trattata dal Mottola). Solo in parte sono riusciti a smentire e a smontare una radicata convinzione errata, ma fondata addirittura sulle affermazioni di una fonte di grande autorità, la passio, gli studi del Mallardo ("Il Calendario marmoreo di Napoli", Roma,1947; "San Potito, un martire dell’Apulia", Napoli, 1956; "Storia antica della Chiesa di Napoli", Napoli,1943), del Mostardi ("San Potito ragazzo martire", Venezia,1943), del Capriglione e del Mottola, i quali concorderanno nel ritenere San Potito originario della Puglia. La loro tesi stenta a farsi strada e a divenire ufficiale, perché, nel frattempo, si è notevolmente ristretta l’area della pratica effettiva del culto, nonostante questa appaia, dagli iltimi rilevamenti sul campo, molto più vasta di quanto ci si potesse attendere. In talune zone ricordate dalle fonti storiche il culto si è affievolito o estinto del tutto.

Sarà molto difficile, pertanto, che l'origine pugliese e ascolana del Martire, acquista ormai come dato certo e inconfutabile dalla storiografia contemporanea, possa essere fatta propria anche dalle redazioni della Bibliotheca Sanctorum (Roma,1968), di rassegne ed elenchi di santi, di almanacchi e calendari di grande diffusione, dal momento che le ultime pubblicazioni potitiane, pru essendo il frutto di un lavoro serio e di grande rigore scientifico, non hanno potuto avere una risonanza nazionele e sono rimaste finora nell'ambito ristretto di località ben definite o in quello di "addetti ai lavori". Le più grosse lacune storiche, se non interrompono del tutto la tradizione, la rendono quanto meno di difficile lettura e interpretazione e coincidono, grosso modo, con le ampie zone d'ombra della Chiesa e della Diocesi di Ascoli, soprattutto durante i lunghi anni in cui essa fu aggregata a quella di Benevento. se la carenza di fonti o di documenti è grave e notevole per fatti di storia civile ed ecclesiastica, risulta pressocché totale riguardo alle tradizioni popolari, che solo raramente hanno il supporto di fonti scritte a cui attingere. ciò nonostante è bene ed opportuno sforzarsi di leggere, come si suol dire, fra le righe di alcuni fatti e aspetti dlla tradizione popolare su San Potito, che presenta elementi di fede profonda ed autentica, ma anche (cosa inevitabile a livello di religiosità popolare) intecci, connessioni, commistioni con i miti dalle origini della città, con le leggende sulla sua evangelizzazione, con precedenti culti pagani, con credenze superstiziose e con pratiche magiche.

2. CONTESTO STORICO E AMBIENTE SOCIO-FAMILIARE.

Se prendiamo in considerazione l'ambiente umano in cui si svolse la vicenda terrena di Potito, con un padre Hylas, una matrona Quiriaca, un preside Gelasio, un senatore Agatone, un eunuco Giacinto (personaggi ricordati nella Passio Sancti Potiti), esso non sembra affatto romano. Appare piuttosto greco od orientale e ciò potrebbe avvalorare la tesi di quanti sostennero l'origine orientale del Santo, per la precisione di Sardi della Tracia, nome confuso successivamente con quello della Sardegna. Un semplice, sommario esame di quei nomi ci induce a ritenere che essi non appartengono all'onomastica latina. Lasciando da parte l'eunuco Giacinto, che potrebbe essere uno schiavo greco, gli altri tre maschi vengono definiti cittadini romani e sono perfino magistrati di alto rango, ma non vengono designati con i tria nomina dei cives romani. Sono indicati dalla passio con un solo nome, allamaniera greca, che non richiama il nomen di una gens o il cognomen di un particolare casato familiare. Per di più la tradizione romana voleva che ilfiglio ripetesse esattamente il nome del padre, coincedenza onomastica che non c'è tra Potito e il padre Hylas.

Che cosa significa ciò? La risposta è nella passio stessa, che racconta vita e miracoli senza eccessivi scrupoli di coerenza con il contesto storico. La vita e il martirio di San Potito maturano nel II secolo d.C. sotto gli Antonini: per la precisione, il giovane viene giustiziato sotto Marco Aurelio fra il 160 e il 180. Sono anni difficili per il cristianesimo, che tuttavia ha già avuto modo di evengelizzare numerose città italiche, fra le quali anche Ascoli e la vicina Ordona. Artefice della evangelizzazione dei due municipi apuli è stato San Fotino, che ha lasciato ad Ordona un suo discepolo, San Leone, il quale viene acclamato vescovo dalla comunità ordonese nel 105, divenendo così il primo pastore della Diocesi.Non conosciamo i nomi dell'immediato successore né dei vescovi dei primi secoli della Chiesa di Ordona e di Ascoli. La vasta lacuna ci segnala la grave durexzza dei tempi per i cristiani, costretti a professare in silenzio e in segreto la loro fede e a subire, come Potito, anche il martirio.

La memoria storica mantenuta e trasmessa per via orale non è giunta a noi nella sua integrità e nella sua continuità. per avere il nome di un altro vescovo bisogna arrivare al I marzo del 499, quando Saturnino, a capo della diocesi di Ordona, sottoscrisse gli atti del Concilio di papa Simmaco, e ai secoli X - XI, da quando i vescovi diocesani si dissero di Ordona e di Ascoli: dal 1067, con Lupo Protospata, inizia la serie completa dei vescovi che giunge fino ai nostri giorni con piccole lacune ininfkuenti sulla sua continuità. Per questi lunghi anni, anzi secoli, non abbiamo notizie su San Potito: le fonti documentarie a disposizione risalgono al massimo all'VII secolo, ben sei dopo la data del martirio.

3. LA PASSIO.

La mancanza di notizie per così lungo tempo, durante il quale la comunità cristiana ha tuttavia mantenuto vivo il ricordo del suo Santo martire tramandandone oralmente la memoria, giustifica le confusioni, le commistioni, le connessioni della passio Sancti Potiti. Essa venne costruita dall'ignoto autore secondo i topoi (dal greco topos = luogo, luogo comune) di quello che fu vero e proprio genere, letterariamente elaborato e complesso, che ottempera a precese norme retoriche, il quale ebbe una larghissima diffusione dal IV secolo, stilizzato su modelli di letteratura preesistente a quella cristiana (Cfr. A.Ronconi, M.R.Posani, V.Tandoi "Storia e antologia dlla letteratura latina", Le Monnier, Firenze,1979). Imitando quei modelli, il compilatore della passio potitiana attinse a piene mani alle opere dei maestri greci e orientali e non fese scrupolo di mattere insieme greco e latino, latico classico e latino volgare: si pensi alla sartagine (dal latino sartago = padella, teglia) ( sartàiene,- nel dialetto ascolano - cioè padella) con olio bollente in cui Potito venne immerso quando dovette subire una serie impressionante di supplizi. Questi vengono descritti minuziosamente e meticolosamente in un orrido crescente, per fare più facile e immediata presa sul pubblico al quale l'autore si rivolgeva. esso era costiruito da fedeli ingenui, di umile ceto popolare e di poca o nulla cultura, che nella visione del raccapricciante terreno poteva cogliere l'immagine figurale di quella civitas diaboli (città del diavolo) che era chiamato ad evitare per meritare il premio del paradiso attraverso l'imitazione delle virtù eroiche del santi.

Secondo i topoi del genere passio, con l'amplificazione iperbolica delle torture e dei sipplizi a cui veniva sottoposto, il martire che superava indenne, miracolosamente, prove indicibili, uscendone confermato nella fede, stranament soccombeva all'ultimo, la decapitazione, che suggeriva e invocava dai carnefici egli stesso. Una nota illuminante sul martirio di Potito viene da Vincenzo Sarcone ("A che tipo di procedimento penale fu sottoposto San Potito?" in Cronache della Cattedrale - sito web: www.nativita.3000.it -, Ascoli S., n.5,18 agosto 1993), il quale configura il crimen maiestatis (delitto di lesa maestà) per la condanna del giovinetto ascolano e ipotizza il coinvolgimento del ragazzo, che per l'età poteva essere imputato di colpe o di reati gravi, in una "persecuzione dovuta ad una agitazione di massa". Per questo motivo, in base a precise norme procedurali giuridiche, Potito, civis romanus anche se non optimo iure (di pieno diritto, detto del cittadino romano che godesse della pienezza del diritto) per aver raggiunto i diciotto anni, condannato a morte, viene giustiziato, probabilmente insieme ad altri cristiani, mediante decapitazione.

III. MARTIRIO PRESSO LA MUFITE.

1. LA MUFITE.(trad. La Mefite: leggendario luogo del martirio del Santo in contrada "Posta di San Potito", presso il torrente Caparelle, in agro di Ascoli Satriano).

La pena capitale per San Potito non viene eseguita in città, per espresso divieto di legge, ma in località lontana dall'abitato. Non si tratta, però, di una località qualsiasi. E qui vengono a realizzarsi oscuri e misteriosi intrecci di storia e di tradizione popolare, di sacro e di profano, di religione e di superstizione. E', infatti, un sito del tutto particolare, che è anche un luogo di culto, carico di elementi di valore altamente simbolico, è un luogo di cura dello spirito e del corpo: è una Mefite dalla quale esalano prodigiosamente vapori pestilenziali per emanazioni solforose. Tali fenomeni geofisici naturali vengono ritenuti dalle popolazioni primitive, che nell'età neolitica hanno fatto la scoperta del sacro, manifestazioni fisiche di un numen (nume, volontà, maestà, potenza divina) divino, particolarmente frequenti e abbondanti nel territorio italico meridionale, come ci ricorda ancora Sarcone (op.cit.). La credenza superstiziosa della gente addebitava ad esse epidemie e pesti, per esorcizzare e deprecare la quali venne concepita una divinità che presiedeva a tali fenomeni considerati soprannaturali, la dea Mefite (cfr. Pierre Grimal, Enciclopedia dei miti, Garzanti, Milano, 1990).Rientra, pertanto, nella logica della religiosità primitiva l'erezione in tal luogo di un edificio di culto presso il quale gli uomini potessero attuare le loro pratiche magico-religiose per allontanare da sé il male e il contagio della peste o per invocare la guarigione.

La Mufite della Posta di San Potito è ritenuta dalla tradizione popolare ascolana il luogo dove si realizzò il martirio del ragazzo che, secondo la passio, non aveva voluto sacrificare agli dei pagani presso l'ara ivi eretta in loro onore.

Quali fossero precisamente questi dei non è possibile dire. La passio cita alcune divinità note del Pantheon classico come Giove ed Apollo insieme ad uno sconosciuto dio Arpan, protettore probabilmente della vicina Arpi (nei pressi dell'attuale città di Foggia),

Raccogliendo l'ipotesi formulata da Pasquale Rosario (Dall'Ofanto al Carapelle , ristanpa in sei volumi a cura di F.Capriglione, M.Popolo Libreria ed. Ascoli S.,1989), il quale ha spesso delle straordinarie intuizioni che portano vicino alla verità più di tanti lunghi e approfonditi studi e sforzi della ragione, l'ara della Mufite doveva essere un altare di divinità minori il cui culto era più coerente con le caratteristiche del posto, dove dovevano svolgersi di norma bagni terapeutici e lustrali e pratiche di divinazione. La scoperta in quel sito di antichi ruderi indusse lo storico-archeologo ascolano( a Pasquale Rosario è intitolato il locale museo e il parco archeologico) a presumere di avere individuato il cenotafio ( tomba vuota dedicata a uomo defunto sepolto altrove)dell'indovino Calcante e l'eroo del medico-guaritore Podalirio, figlio del mitico dio della medicina Asclepio (Eusculapio). La localizzazione del cenotafio e dell'eroo è molto controversa (Cfr. Rosario, op.cit.; M.Fiore, I culti di Calcante e Podalirio, Torremaggiore, 1965; M.Iafisco, Le origini di San Severo e i templi di Calcante e Podalirio, San Severo, 1966), ma accettando la tesi prevalente di chi individua sul Gargano la sede del santuario di Calcante e di Podalirio, non è fuori luogo immaginare che edifici di culto a loro dedicati sorgessero anche altrove e, quindi, pure ad Ascoli, dove fedeli e pellegrini sacrificavano nella pelle dell'animale per avere sogni profetici e la guarigione dalle malattie con l'immersione del corpo nei fanghi della Mefite (Cfr.P.Grimal, op.cit.).

2. LA SIMBOLOGIA DELL'ACQUA.

Per avere chiara l'idea di queste pratiche religiose non si può prescindere dal valore simbolico che gli antichi attribuivano all'acqua e a quanto ad essa si connette. L'acqua "come flusso primordiale rappresenta, in molti miti della creazione dl mondo, la sorgente di ogni forma di vita, ma è anche elemento di dissoluzione e di annegamento (si pensi ai diluvi universali). Sul piano psicologico...è simbolo degli strati profondi e inconsapevoli della personalità.Come simbolo elementare ha un significato ambivalente (conflittaule), perché da un lato dà la vita e rende fertile, ma dall'altro allude all'affondamento e al declino... Stagni e pozzanghere, ma specialmente i laghi di acqua sorgente, per molte culture furono luoghi di residenza di spiriti naturali, sirene e geni delle acque, oppure demoni acquatici di vario tipo, profetici e spesso pericolosi. Anche in questo caso emerge il significato conflittuale che l'acqua assume nella simbolica.

Una sorta di sistema dualistico è rappresentato nel sacramento cristiano dll'acqua mescolata al vino; all'elemento passivo viene unito il £fuoco" del divino, e ciò allude alla doppia natura della persona di Gesù.. Nell'iconografia cristiana l'acqua svolge in prevalenza la funzione di elemento purificatore che nel battesimo lava la macchia del peccato...E' ben nota l'importanza che il mondo cattolico attribuisce all'acqua benedetta. Nella liturgia religiosa è rilevante l'acqua benedetta non ancora mescolata all'olio santo (crisma), così come lo è l'aqua benedicta consacrata in determinate ricorrenze, che i credenti portano con sé nelle loro case per riempire le piccole acquasantiere poste sulla soglia. Essa serve a fissare il segno della croce che si fa con le dita inumidite e che un tempo era accompagnato dall'atto di spruzzare nella camera qualche goccia consacrata. Secondo un'opinione largamente diffusa nella religiosità popolare, le gocce cadute devono essere d'aiuto alle "misere anime del Purgatorio", e alleviare l'insopportabile calore delle fiamme che le purificano. Largamente diffuso è il culto dell'acqua che affiora direttamente dalle profondità della terra e agisce come dono delle divinità etonie, specialmente quando è calda (acqua termale) oppure quando grazie ai suoi elementi minerali possiede un effetto terapeutico( Cfr. Hans Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Garzanti, Milano, 1991).

3. SOVRAPPOSIZIONE DEL CULTO CRISTIANO.

L'excursus (digressione) nella simbologia ci consente di esaminare e di spiegarci meglio un altro fenomeno assai comune, la sovrapposizione del culto cristiano ai precedenti culti pagani. In base ad una vera e propria legge del contrappasso Potito viene giustiziato e decapitato presso l'ara di quei medesimi dei pagani ai quali non ha voluto sacrificare secondo la volontà dell'imperatore Antonino ed ivi viene sepolto.Con l'attuazione e la consumazione del martirio il posto subisce una sorta di lavacro purificatore con il samgue versato a proclamazione e a testimonianza di fede. Da quel momento il sito diviene meta di pellegrinaggi della comunità cristiana locale, che va a pregare sulla tomba del suo Martire, dapprima clandestinamente in segreto per il perdurare delle persecuzioni imperiali poi, per l'attenuarsi di queste e con la progressiva cristianizzazione della società dall' anno 313 in poi sempre più liberamente e in massa, per manifestare una devozione crescente che non subirà mai più flessione o interruzione.

E' possibile, probabilmente che sul luogo del martirio i vecchi edifici di culto pagano siano stati distrutti, tiutolizzati o stituiti da un tempio cristiano eretto in onore di San Potito, a devozione popolare, presumibilmente, deve aver avuto, e per lungo tempo, piena possibilità di espressione col radunarsi dei fedeli sulla tomba del Santo sotto la protezione di una chiesa locale organizzata sotto l'autorità di un vescovo attraverso la sua aggregazione alla diocesi di Ordona dal 313.

Il culto potitiano da allora comincia a perdere il suo carattere locale per divenire universale col diffondersi su una vastissima area dalla Campania alla Sicilia: tra il IV e il V secolo, conl'istituzione di un Convento intitolato a San Potito, Napoli diventa il centro di irradiazione del suo culto. La situazione si mantiene assolutamente tranquilla almeno fino al 633, quando con la distruzione di Ordona da parte dei Bizantini la diocesi di Ordona e Ascoli finisce aggregata a quella metropolita di Benevento. Il trasferimento della diocesi non comporta per altro una cessazione o un affievolamento del culto potitiano, anche se mancano notizie al riguardo trasmesse da fonti scritte. Una traccia della devozione ancora viva troviamo in un documento beneventano del 709 relativo alla donazione di un fondo Romualdo all'abate di San Pietro posto ad aquam sancti Petiti (presso l'acqua di San Potito).

Intanto i tempi per Ascoli, divenuta terreno di scontro fra Longobardi e Bizantini, si fanno più duri: la città vive un inesorabile processo di decadenza in cui viene meno anche la sicurezza per le spoglie del Santo sepolte nel suo territorio. Nuove concessioni fondiarie ascolane vengono fatte nel 774 da Arichi all'abbazia benedettina beneventana di Santa Sofia in prossimità del corso del Calaggio-Carapelle, vicino alla Mefite. Di qui Sicardo (818-839) ordina la traslazione delle spoglie del Martire in quell'abbazia sicché da quel momento il suo culto si lega indissolubilmente ai Benedettini, i quali lo diffondono in tutto il territorio italico e fuori. Quali considerazioni suggerisce l'atto di Sicardo? La decadenza di Ascoli in quel trempo doveva essere pressocché totale per i continui scontri militari sul suo territorio sottoposto a devastazioni, incendi e saccheggi; su di esso non vigeva più alcuna autorità né civile né religiosa. Il duca Sicardo, d'intesa con il Metropolita beneventano, il quale ormai esercitava direttamente la sua giurisdizione anche su Ascoli, dovette ritenere che le spoglie del Santo, venerato in tutto il suo ducato, non più al sicuro presso i fanghi della Mefite, meritassero una più degna collocazione nerlla basilica della capitale sotto la custodia dell'ordine monastico più potente del rtempo, nella consapevolezza che si trattava pur sempre del primo Santo martire della Daunia attestato storicamente.

Nonostante la traslazione delle spoglie, il culto di San Potito si conservò vivo ad Ascoli dove, senza mai cessare, è giunto fino ai nostri giorni. La distruzione dell'archivio diocesano di Ascoli per un incendio avvenuto nel 1567, sotto il vescovo Marco Lando, ci ha sottratto documenti locali sicuramente di grande importanza. La loro perdita è parzialmente attenuata dalla conservazione di altri in altri sedi. Due preziose pergamene virginiane del 1118 e del 1229 attestano la presenza in Ascoli di una Chiesa di San Potito che sarà restaurata in seguito dal vescovo fra' Ferdinando d'Avila (1603-1620) e abbellita da mons.Pirro Luigi Castellomata, della quale non si sono tracce e non è possibile dire ove si travasse. Il riferimento delle due pergamene è importante, perché si inquadra in una vera e propria rinascita della chiesa locale ascolana, alla testa della quale, nel 1067, con Lupo Protospata, torna nuovamente e definitivamente, un suo proprio ordinario diocesano.

IV. LA FIERA DI SAN POTITO.

Decisamente sottovalutata è, a nostro avviso, la notizia di una fiera di San Potito del 14 gennaio 1301 riportata in una lagazione dei quattro sindaci ascolani inviata a Carlo II d'Angiò per risolvere alcune questioni fiscali, Viene ricordata da altri solo di sfuggita mentre è di importanza rilevante. La ricorrenza di una fiera intitolata a un santo, infatti, sottolinea notevoli elementi.

Quella di San Potito si tiene nel giorno della festa del Martire, probabilmente ritenuto fin da allora patrono della città. Come ogni fiera non è un avvenimento di poco conto, ma l'occasione in cui la comunità cittadina intera è coinvilta da protagonista in fatti e operazioni che hanno risvolti e implicanze di varia natura: religiose, civili, culrurali, commerciali, fiscali, ecc. E' la circostanza in cui la città, per tutti questi motivi, si affolla di persone e di pellegrini che si portano in essa, anche la lontane contrade, per devozione o per affari con la compravendita di bestiame, attrezzi agricoli e da lovoro, merci varie; si instaurano relazioni sociali e culturali fra intere comunità.

La data del 14 gennaio, se acxquista una risonanza solenne per la coincidenza della festa religiosa in onore di San Potito, ci lancia altri segnali considerevoli: la fiera in un periodo di inverno inoltrato viene a chiudere, sicuramente, il ciclio di manifestazioni consimili nell'intero circondario. Le fiere d'autunno e d'inverno srvivano, una volta ultimate tutte le operazioni di preparazione dei campi con l'aratura dei campi e la semina dei cereali, per vendere quanto le aziende agricole (massarie) non erano più in grado di sostenere, cioè il bestiame (cavalli, muli, asini) che rimaneva inutilizzato, ma doveva comunque essere alimentato; per acquistare, invece, provviste alimentari (olio, vino, legumi, frutta secca, formaggi, salumi) onde affrontare con serenità e tranquillità i rigori della stagione invernale nell'isolamento delle masserie e delle case di campagna allora densamente abitate.

Nelle ricorrenze religiose più solenni si svolgevano anche trattative di lavoro: l'8 settembre, Natività di Maria, li padrune (proprietari terrieri) facevano contratti con l'annarule per la nuova annata agraria; il giorno dell'Immacolata, 8 dicembre, o a Santa Lucia, 13 dicembre, si tenevano in genere delle fiere.

Sulla sorte e sulla fine della fiera di San Potito non sappiamo nulla per assoluta mancanza di documenti. Si deve ritenere che la data in cui si svolgeva, troppo inoltrata nella stagione invernale, creasse obiettivi disagi di traffico e di trasporto a piedi o con animali e carri su polverose strade bianche trasformate in pantani dalle piogge o dalla neve; di ricettività per l'accoglienza dei molti forestieri che prendevano alloggio nelle numerose taverne (nell'accezione dialettale: alloggio e ricovero per persone ed animali), insieme ai loro animali, in locali che non avevano nemmeno l'ombra di servizi igieneci e di un adeguato riscaldamento. E' ragionevole supporre che per questi motivi sia stata soppressa o si sia estinta naturalmente e che sia stata sostituita in seguito da quella di Santa Lucia, che si tiene tuttora un mese prima.

V. IL CULTO DEL MARTIRE IN EPOCA MODERNA.

1. LA RIPRESA E LA PROGRESSIVA INTENSIFICAZIONE DEL CULTO.

Col passaggio dal buio medioevale, che avvolge la figura del Santo per la carenza di documenti e di informazioni, all'epoca moderna si assiste a una progressiva, inesorabile ascesa dell'importanza di San Potito nella chiesa e nella comunità civile di Ascoli. Il culto si intensifica, si consolidano le tradixzioni, aumentano di numero i prodigi e i miracoli che gli ascolani attribuiscono all'intercessione del loro Martire, che viene sempre più sentito come il patrono principale (già prima del 1873 come dimostra il Mottola nella "Patria d'origine del Martire Potito") della città e della diocesi e come tale proclamato dall'autorità ecclesiastica che gli riconosce e riserva una posizione e una considerazione di primato in mezzo agli altri protettori, i santi Leone, Biagio e Stefano.

I secoli XVI-XVIII sono, probabilmente, quelli potitiani per eccellenza nella chiesa di Ascoli per la consacrazione definitiva del Santo celebrato nella sua gloria da splendide opere d'ate. Sono stati già ricordati il restauro e il successivo abbellimento dell'antica choesa per opera dei vescovi Ferdinando d'Avila (1603-20) e Pirro Luigi Castellomata (1648-57). Negli anni venti-trenta del medesimo secolo XVII un nuovo grandioso tempio viene eretto e intitolato al Santo con l'arrivo in Ascoli dei Frati Minori Riformati di San Francesco, ammessi dal vescovo Francesco della Marra, che pone la prima pietra del Convento e della Chiesa di San Potito, tuttora esistenti e magnificamente operanti sullacollina omonima, il 14 maggio1623. Il complesso verrà abitato dai frati solo dal 1636. Le cronache del tempo lo ricordano circondato dall'orto della Badia di Santa Marena e dotato di un pozzo di San Potito ricco di un'acqua miracolosa e salutifera che gli ascolani vanno ad attingere con fede e devozione per l'antica credenza popolare nel valore lustrale delle acque. Una lapide collocata sull'ambone della chiesa definisce Potito patrono principale della città e ricorda la dedicazione da parte di Mons. Giuseppe Campanile, il 16 giugno 1756.

Il Santo martire è, forse, al centro di un lungo contenzioso, che oppose, nel secolo XV, il vescovo di Ascoli ad altri francescani, i Frati Minori Conventuali, operanti in città nel loro convento alle falde della collina Castello, ove sorgono la Cattedrale, il Palazzo episcopale e il Seminario. Il vescovo del tempo, 1426, Giacomo, già primicerio di San Pietro aveva chiesto, infatti, al papa Martino V (1417-31) il Convento e la Chiesa dei Conventuali per elevarli a Palazzo vescovile e Cattedrale, dal momento che l'antica cattedrale di Santa Maria del Principio, danneggaiata da un terremoto e rimasta ormai isolata sulla collinadella Torre Vecchia (oggi collina Pompei), risultava di difficile accesso per i canonici del Capitolo. La vertenza si protrasse per alcuni decenni, fino al 1455, quando Callisto III con una bolla decretò lo scambio, proposto dal vescovo Giacomo, della chiesa dei Conventuali di Santa Caterina da Siena, che diveniva cattedrale sotto il titolo di Maria SS.della Natività e di San Leone, e dell'annesso convento, con quella di San Giovanni Battista e del vecchio Monastero delle Benedettine, che venivano assegnati ai Conventuali come risarcimento.

La consacrazione della nuova chiesa Cattedrale avvenne sotto il successore di Giacomo, Mons.Giovanni Antonio Beccarelli (1458-69). Risale, probabilmente, a questa lunga controversia la consuetudine tuttora vigente di non far entrare la sratua del Santo, portata in processione, nella Chiesa di San Potito, ma di farla soltanto sostare davanti alla porta per qualche minuto diraccoglimento, per evitare che i frati della famiglia francescana ne entrini in possesso dopo l'antica espropriazione subita (informazione proveniente da fonti orali). Nel 1656, in segno di ringraziamento a San Potito per averli salvati insieme a tanti altri devoti dalla peste scoppiata in paese, il medico Potito Cologno e suo fratello Tommaso, canonico della Cattedrale, fecero costruire la splendida statua argentea (annerita dal fuoco, nel 1998, provocato dalla distruzione della "petagna" di legno finemente lavorata, su cui era collocato il busto argenteo di San Potito, a causa dei lumini che donne anziane mettevono per devozione sulla stessa; lo stesso busto argenteo è stato ripulito dall'artista dell'accademia d'arte di Brera Igino Laghi di Verona nel 2001; tale restauro, completato dal rifacimento in metallo della petagna distrutta, ha ridato splendore alla statua di San Potito fatta costruire nel 1656) di stile barocco, del costo di oltre settecento ducati, tuttora esposta nella sua cappella alla venerazione dei fedeli. Essa fu lavorata a Napoli nel 1654, secondo quanto si legge in un atto notarile del 12 gennaio 1656 redatto dal notaio Bernardino Cautillo alla presenza del vescovo Pirro Luigi Castellomata. L'opera è un autentico capolavoro d'arte che inneggia alla gloria di San Potito e alla sua potenza.

Il culto popolare, intanto, diventa un fenomeno assai rilevante, sicché la festa del Santo viene fissata il 14 gennaio per non farla coincidere con l'ottava dell'Epifania con un decreto della Sacra Congregazione dei riti dei 1 agosto 1693 su petizione del vescovo Punzi. Successivamente vengono fissate anche le norme per la celebrazione della festa, che sono ricordate nello Statuto della Cattedrale del 1706 e nelle Risposte del Capitolo a Mons.Sena.

2. IL "BENEFICIO FAZZINI".

E' stato rinvenuto recentemente un documento di considerevole importanza per lo studio delle tradizioni potitiane. Si tratta di un beneficio ecclesiastico semplice intitolato a San Potito e legato all'altare della sua chiesa fuori le mura, voluto dal sacerdote don Domenico Antonio Fazzini di Vieste ( notizia pubblicata nelle "Cronache della Cattedrale", n.5, 18 agosto 1993, Ascoli S. - vedi sito web:www.nativita.3000.it - ). La scoperta, fatta dal canonico archivista mons.Antonio Silba nell'Archivio Capitolare di Ascoli, del documento, di cui si era perduta memoria, getta nuova ed illuminante luce su una antica, ma interrotta tradizione, la celebrazione di una processione e di una messa alla Mefite della Posta di San Potito nel giorno della festa del Santo (oggi il parroco della chiesa di S.Lucia - nuova - , don Potito Gallo, in tale giorno insieme ad alcuni fedeli si reca in tale luogo per pregare). Tale tradizione, ritenuta fino ad oggi una semplice espressione della devozione popolare, riceve dal beneficio fazziniano un fondamento giuridico e storico.

Il ricordo di quella cerimonia è arrivato oralmente anche alle generazioni tuttora viventi mentre sonoprobabilmente scomparsi tutti i testimoni oculari della sua celebrazione (diverse sonole conferme di fonti orali). Essa vedeva unanumerosa partecipazione di fedeli, un vero e proprio pellegrinaggio degli ascolani sulla tomba del loro Patrono, e doveva essere particolarmente solenne, da quanto è possibile dedurre da un suo documento fotografico nel quale si vede il Vescovo Mons.Soo officiante sotto ilbaldacchino in mezzo alla folla (il documento forografico è riprodotto in "La patria d'origine del Martire Potito" del Capriglione,1978).

Il beneficio Fazzini è importante anche per altri versi: riconosce già nel 1694 il primato di San Potito fra i protetori della città e documenta l'esistenza, ancora a quella data, di una chiesa extra moenia (fuori le mura) dedicata al Santo, che era, come osserva il can.Silba, il quarto luogo ascolano di culto potitiano con la Cattedrale, la Chiesa dei Frati Minori e quella di San Giovanni Battista.

Non è possibile, per mancanza di documenti, identificare il sito dove sorgeva questa chiesa extra moenia, ma collegando il beneficio Fazzini alla celebrazione annuale presso la Mefite, è legittimo almeno immaginare che il luogo fosse proprio la Posta di San Potito, dove Pasquale Rosario sostiene di aver visto, alla fine del secolo scorso, i resti di un'antica ara pagana e i ruderi di un edificio di culto cristiano oramai abbandonato e distrutto.

3. IL VECCHIO E IL NUOVO ALTARE NELLA CATTEDRALE.

Nel 1783 assistiamo a un curioso episodio che denota un così profondo e radicato attaccamento del popolo ascolano alle tradizioni potitiane, da rifiutarne e contestarne qualsiasi modifica o rettifica, anche quando vengono decretate dall'autorità ecclesiastica per effettive necessità.

Sono di quell'anno due lettere dell'Archivio Capitolare di Ascoli (riportate dal Mottola nel suo saggio "San Potito Martire di Ascoli Satriano"Foggia,1992) che definisce senz'altro San Potito patrono principale della città, festeggiato ab immemorabili (da tempo immemorabile), ogni anno e con la massima solennità, il 14 gennaio, e riferiscono delle proteste dei devoti contro l'erezione di un nuovo altare al Santo per rendere più agevole la cerimonia liturgica in suo onore. L'altare in questione è quello privilegiatum (privilegiato) posto nella Cappella di San Potito nel transetto della Cattedrale. esso fu fatto costruire dal Vescovo del tempo, Emanuele de Tomasi (1771-1807), perché il vecchio altare (quello della seconda cappella della navata destra, ove è sempre esposta la grande e magnifica tela raffigurante la Gloria di San Potito) era ritenuto oramai non più adatto alla celebrazione delle sacre funzioni, specialmente il giorno della festa del Santo, quando in chiesa si accalcava numerosissima la folla dei fedeli. Le due lettere lamentano le vivaci proteste di persone che non approvavano l'innovazione introdotta dal Vescovo con la pretesa che i sacri riti si svolgessero, secondo la tradizione, presso il vecchio altare. Per dipanare i malumori degli scontenti fu raggiunto un compromesso con la decisione di far sostare davanti al vecchio altare il busto argenteo del Santo allorché, nella festa del 14 gennaio, veniva trasportato, con breve processione lungo le navate della Cattedrale, dalla sua cappella all'altare centrale del presbiterio per esporlo alla venerazione dei fedeli.

Si coglie in questo episodio una caratteristica costante della religiosità popolare, che vuole un rituale fisso e immutabile secondo una liturgia minuziosa e precisa nella convinzione che ogni modifica apportata dagli uomini vada automaticamente contro la volontà divina.

4. LA TRASLAZIONE DELLA RELIQUIA DA TRICARICO.

Nell'epoca contemporanea il culto degli ascolani a San Potito riceve il suo ultimo e più consistente impulso sotto l'episcopato di Mons.Antonio Sena (1872-87) e acquista una maggiore e crescente intensità sia sul piano religioso che a livello popolare grazie al supporto di una tradizione scritta e orale che prova con certezza e consolida definitivamente il primato di San Potito fra i protettori della città, specialmente rispetto a San Leone, la cui figura appare affatto leggendaria.

La consevazione di una sola piccola reliquia (quella di un dito incastrata sul petto del prezioso busto argenteo) fu ritenuta dal Vescovo Sena ben poca cosa per un paese che vantava il privilegio del martirio del santo nel suo territorio. Fra le città che conservavano e custodivano ancora la maggior parte dei resti del Martire vi è Tricarico (città della Basilicata, in provincia di Matera, che venera come Patrono San Potito, di cui conserva gran parte delle reliquie), dove le ossa di San Potito furono scoperte nel 1506 nella chiesa della Santissima Trinità, che era passata dai Benedettini ai Cavalieri di Malta.

Mons. Sena, dunque, chiese e ottenne, il 23 dicembre 1873, dal vescovo di Tricarico, Simone Spilotros, la reliquia dell'avanbraccio, che da allora viene custodita nell'artistica teca d'argento a forma di braccio con mano benedicente, fusa a Napoli il 14 gennaio 1874, la quale viene offerta dal sacerdote per il cerimoniale bacio che conclude la festa patronale.

Sul finire del secolo i canonici primiceri Potito e Carlo Dente costruirono, a supporto del busto argenteo, per una spesa di circa seicento lire, una piramide anch'essa d'argento sulla quale viene portato in processione secondo le modalità di svolgimento ricordate nelle Risposte del Capitolo a Mons.Sena (1873).

VI. LA FIERA DEL "CIUCCIO".

1. LA VERSIONE POPOLARE.

All'ottenimento della reliquia del braccio e alla presenza della maggior parte delle reliquie del Santo a tricarico, ritenuta dal popolo inspiegabile, risalgono l'invenzione, l'elaborazione e la diffusione della fiaba del "ciuccio" di San Potito (lu cunde lu ciucce Sam Betite) (la fiaba - racconto - dell'asino di San Potito), che riportiamo nella versione popolare, in dialetto, e in quella dotta pubblicata da Pasquale Rosario.

Steve na vote nu trainiere de Trecareche. Doppe na iurnate de fatiie se ne steve turnanne a lu paese suve.Quann'arrevé a la Mufite, s'avett-a ffermé, pecché nu ciucce, ca non ge la faceve cchiù a ppurtè la zzammine chine de rrobbe 'ngiambechè, cadì e sse rumbette na cosse. La povera bbestie nom buteve cchiù ccammenè. Aprete ciele! Se 'ngazze lu trainiere e ccummenz-a ggastumé cum-a nu pùurche Madònne, Ggesù Criste, Sam Betite.Ma, avòglie a ggastumè, l'annemale non zervève cchiù e ppe lu bbuùune o pe la forze, l'avév-accide. Le facéve male lu core, ma l'acc'dì lo stesse. Prime de dubrbrecarle sotte la terre, però, scurcè lu ciucce bbèlle bbèelle, accussì arméne putéve vénne la pèlle e gguadagné cocche ccose. Carecàte lu zzammine e la pèlle lu ciucce sop-a l'ate annemale, se 'ngammenè da cape pe lu paese suve. Dòppe nu bbèlle poche de strade, mmadònna miie, sènde a lu ciucce mùurte ca raglie. Chine de mevaviglie s-aggire addrete e cche tte véde? Véde a lu ciucce suve sènza pèlle ca vace currènne e zzumbanne allghere alleghre. Lu traunière allore, sènza pèrde manghe nu menute de tiembe, piglie la pelle da lu zzammine e cce la métte a nnata vote nguùulle a luciucce. Pèrò non ge la mette ggiuste, ce la mètte a l'ammèrse, pe la code ìnnanze e la c'pe arréte. Lu ciucce, cumbenn'te accussì, no vvulève iì 'nnanze pe nnisciuna raggione e accumenzè a ccorre a lu punde satte satte andò ére cadute e sse mettètte a shcavè pe li cciambe ind-a la tèrre. Lu trainìire se mettì a shcavé pure isse a shcavanne shcavanne l'apparì nnanz-a l'ùucchie lu cùurpe de nu mùurtecìille bbèrefàtte. E're lu cùurpe de Sam Betite. Chiagnènne da la ggiòie, lu trainìire lu pulezzè bèlle bèlle, se 'ngenucchiè a ddice li ccose de Ddìie, pò appuggè lu mùurtucìille 'ngùull-a lu ciucce e sse lu purtè a lu paése suve andò lu fèce fabbruchè na bbèlla cchièse pe li solde de tutte li paisane suve.

(Il testo dialettale della versione popolare della fiaba viene qui riportato così come è stato personalmente esposto a voce da diverse fonti orali di anziani ascolani.Traduzione: C'era una volta un carrettiere di Tricarico che dopo una giornata di lavoro se ne tornava al suo paese. Quando arrivò vicino alla Mefite dovette fermarsi perché un asino, che non ce la faceva più a portare la bisaccia piena di roba, inciampò, cadde e si ruppe una zampa, sicché la povera bestia non poteva più camminare. Apriti cielo! Si infuria il carrettiere e comincia a bestemmiare, come un maiale, la Madonna,Gesù Cristo e San Potito. Ma, hai voglia di bestmmiare, l'animale non serviva più e, con le buone o con le cattive, doveva ammazzarlo. Gli faceva male al cuore, ma l'uccise ugualmente. Prima di seppellirlo sotto la terra, però, scuoiò l'asino bello bello, così da poterne vendere almeno la pelle per guadagliare qualcosa. Caricata la bisaccia e la pelle dell'asino su un'altra bestia, si incammina di nuovo verso il suo paese. Dopo un bel pò di cammino, Madonna mia!, sente ragliare l'asino morto. Pieno di stupore si gira indietro e che ti vede? Vede il suo asino privo della pelle che va correndo e saltando allegramente.

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