Una speranza per Eluana come per la figlia di Giairo - riflessione di Dionigi Tettamanzi

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La vicenda di Eluana Englaro, la giovane in "stato vegetativo" da quattordici anni, mi colpisce come credente e cittadino, ma soprattutto mi interpella come Vescovo della terra in cui Eluana abita. In questi giorni sono stati davvero numerosi i sentimenti, le riflessioni e gli interrogativi che sono cresciuti nel mio cuore.

Desidero ora confidarne alcuni a quanti il Signore ha affidato alle mie cure pastorali. Vorrei essere discreto, entrando in punta di piedi in una storia umana quanto mai delicata, nella quale il mistero della vita si fa più denso, quasi inaccessibile alla luce della sola ragione, e lancia una sfida formidabile per la libertàdi ciascuno di noi.

Rileggendo una pagina del Vangelo
Sfogliando i quotidiani e leggendo i titoli che commentano la sentenza su Eluana, il mio pensiero tende sempre più a staccarsi dalle parole a stampa. Sono parole umane, anche vere, talora indovinate: ma non mi bastano. Cerco allora una parola nuova, originale, unica: la trovo nel vangelo di Marco, quando racconta della figlia di Giairo, un capo della sinagoga, la quale giace gravemente ammalata (cfr. Marco 5,21-24. 35-43).

Mentre egli sta supplicando Gesù di venire a trovarla e guarirla, dalla sua casa alcuni vengono a dirgli: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Per i parenti e gli amici, dunque, la giovane appare morta, immobile sul letto, incapace di parlare e di sorridere come era solita fare un tempo. Nella sua abituale sobrietà narrativa, l’evangelista non aggiunge altri particolari. Lascia però intuire l’opinione molto decisa, quasi inappellabile, dei portavoce della famiglia: la condizione in cui versa la figliola è ormai senza speranza. Perché darsi ancora da fare per lei, accudirla, disturbare persino il Maestro?

Ma Gesù non è dello stesso parere: «La bambina non è morta, ma dorme». Un’affermazione contraria all’opinione di molti, un’espressione paradossale, quasi ingenua: aprire una speranza quando la porta della vita sembra essere ormai chiusa per sempre. Il Maestro questa volta si è sbagliato: «Ed essi lo deridevano», ricorda il vangelo.

In realtà gli occhi di Gesù vedono quello che è invisibile agli occhi umani: i segni della vita personale non sono scomparsi, ma solo resi quasi impercettibili ai sensi, così deboli da non apparire più credibili. Infatti la persona umana, nel suo mistero, sfugge al nostro sguardo. Non è forse così anche per chi non può manifestare la propria coscienza ed entrare in relazione con noi attraverso le parole, i sensi, i gesti?

Chissà se la figlia del capo della sinagoga era clinicamente morta oppure giaceva in uno stato comatoso o vegetativo. Il racconto di Marco non ce lo fa sapere e qui il mio pensiero si ferma. Ma un’intuizione mi prende: l’intelligenza della vita e la speranza nella vita non sono separabili.
Per comprendere e abbracciare con lo sguardo della ragione la vita dell’uomo in tutte le sue possibili circostanze occorre aprirsi al pensiero del futuro. La ragione deve osare un’apertura sul domani, non può appiattirsi sul presente, rimanere prigioniera di un’opinione o di un’ostinazione, ma spalancarsi a tutta la realtà della vita, quella visibile e quella che i nostri sensi non riescono a percepire.

Allo stesso tempo la speranza della vita scaturisce dal presentimento della realtà nella sua pienezza, della verità tutta intera, quella che sfugge alla scienza dell’uomo ma è rivelata dallo Spirito di verità (cfr. Giovanni 16,13) nella vita stessa di Gesù di Nazareth. Entro così in un ordine più alto, nella sfera della fede, che mi fa contemplare la vicenda di Gesù nella sua singolarità. Lui solo ha potuto dire alla figlia di Giairo: Thalita kum, fanciulla, io ti dico, alzati! E ridestandola con potenza alla vita terrena ha dato inizio in lei a quella vita divina che si compirà in pienezza nell’ultimo giorno con la risurrezione della carne.

Nella luce di questa prospettiva trascendente prende forma un giudizio etico, che nasce dalla fede cristiana ma non è estraneo alla ragione: non possiamo spegnere la vita di nessuna creatura umana senza uccidere, insieme a lei, la speranza che vive in essa, quella di essere fatta per la vita e non per la morte.

Libertà, responsabilità e solidarietà

Sempre con cuore di pastore e nel desiderio di offrire un aiuto alla formazione della coscienza e alla chiarezza dell’azione, vorrei lasciarmi provocare da alcuni interrogativi suscitati dalle diverse prese di posizione emerse in questi giorni e soffermarmi così sulle autentiche esigenze della libertà e responsabilità di quanti, a vario titolo, hanno in custodia una persona gravemente malata, che dipende, per la sua esistenza, dalle loro cure.

Ricordo anzitutto che il luogo proprio delle decisioni che riguardano la cura di un malato è la relazione personale e fiduciale tra il paziente (se è in grado di comunicare con chi lo assiste), i suoi familiari ed il personale medico e infermieristico. E’ davvero importante custodire e proteggere questa relazione, favorendo lo sviluppo di un dialogo clinicamente obiettivo, moralmente onesto e socialmente responsabile. Al centro di questo dialogo deve stare sempre il bene fondamentale della vita di ogni malato, un bene che non dipende dalla qualità delle sue capacità fisiche, psichiche e comunicative, ma che trova la sua radice nel fatto stesso di esistere. In ogni caso, la rinuncia a terapie sproporzionate o a cure futili non può comportare la sospensione della nutrizione e della idratazione, nella misura e fino a quando esse risultino efficaci nel sostenere la fisiologia del corpo. Anche qualora effettuata mediante vie artificiali, la somministrazione di acqua e cibo costituisce un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita.

Dobbiamo poi domandarci: il rispetto della scienza e della coscienza dei medici e delle responsabilità proprie di coloro ai quali è affidata la cura delle persone non autosufficienti non esige una giusta discrezione da parte delle autorità amministrative e giudiziarie?

Esse non devono condizionare, con interventi normativi, la libertà ed il compito che ciascuno possiede, secondo le proprie idealità e capacità, di interrogarsi sulle ragioni della cura e della promozione del bene della persona umana sofferente. Una libertà e un compito, questi, che la società è chiamata a promuovere, offrendo opportunità di riflessione, di formazione e di confronto. La Chiesa a pieno titolo, nel rispetto dell’autonomia dello Stato e delle diverse tradizioni e concezioni culturali e religiose, ha qui il dovere di offrire il proprio prezioso e singolare contributo.
Infine, non dovremmo appellarci ad un senso più forte di solidarietà creativa e operosa nei confronti della solitudine e dell’abbandono in cui si trovano tanti nostri fratelli e sorelle, ammalati gravemente e da lungo tempo? Grazie all’intelligente e amorevole cura delle Suore Misercordine e dei loro collaboratori sanitari, Eluana non ha sperimentato fino ad oggi solitudine e abbandono. La loro testimonianza ci è di conforto e di incoraggiamento a fare altrettanto.

Preghiera e discernimento
Sento forte il bisogno della preghiera. Celebrando l’Eucaristia chiedo al Signore che la nostra comunità cristiana possa trovare parole vere e tenere comportamenti giusti, ispirati a un vero e grande amore per la vita di ogni donna e di ogni uomo, in ogni stagione e circostanza.

Avverto la necessità che su questa vicenda umana sensibilissima il clima culturale e sociale sia animato da un profondo rispetto: il rispetto dovuto a tutte le persone coinvolte – e, sia pure in forme e gradi diversi, lo siamo tutti noi – e nello stesso tempo ai valori fondamentali che danno senso e orientamento al nostro nascere, vivere, soffrire e morire.

Ma di fronte all’inestimabile realtà della vita umana, che è sempre un bene in sé, il solo rispetto è ben poca cosa se non è segno ed esigenza di amore: un amore che chiede di raggiungere la profondità propria della venerazione per ogni vita umana. E la venerazione non si ferma al riconoscimento del valore trascendente della nostra esistenza, ma esige anche l’umile consapevolezza e il coraggio di assumersi le responsabilità personali e sociali di difesa e promozione del bene della vita umana.

Solo a partire da un atteggiamento di autentica venerazione del "mistero" che è in ogni uomo potrà sorgere una riflessione necessaria e adeguata, che sia critica e pacata, illuminata dalla ragione e corroborata dalla fede, una riflessione cioè che non si lasci offuscare dall’emotività né dominare da pregiudizi, e neppure diventi facile preda di strumentalizzazioni o di interessi estranei al vero bene della persona.

Come Vescovo esprimo la mia vicinanza umana e cristiana a questa giovane, alla sua famiglia, alle Suore Misericordine che, insieme al personale sanitario della Clinica "Talamoni" di Lecco, l’hanno accolta e curata con professionalità e amore grande.